Boston University: discorso di commiato di Alessandro Benetton ai laureati MBA 2009 della School of Management

Signore e signori, buonasera,

vent'anni fa stavo festeggiando in questa Università, come voi state facendo ora, sapendo che ero a un momento di svolta nella mia vita. Stavo diventando adulto ed ero entusiasta di assumermi le mie responsabilità. Ma ero anche spaventato, e immagino che anche voi lo siate, dalla sfide e dalle prove da affrontare una volta lasciato questo campus e la bellissima città di Boston.

Ma lasciatemi innanzi tutto esprimere i miei complimenti sinceri e un caloroso augurio di successo a tutti i laureati di oggi. Voglio poi estendere il ringraziamento e i complimenti al corpo docente, per il suo contributo di competenza e professionalità. E ringrazio il Preside della Boston University School of Management, Louis Lataif, che mi ha gentilmente invitato a questa felice cerimonia.

Un grazie sincero anche ai genitori e ai parenti dei laureati, così come a tutti i presenti, per la gentile accoglienza e la calorosa disponibilità.

La cerimonia che oggi siamo qui a condividere segna un traguardo formativo di eccellenza. Si tratta non solo di un traguardo, ma è soprattutto una nuova partenza, l’inizio di una nuova fase del vostro viaggio di formazione professionale e umana.

Viaggio che è un po’ come la vita stessa, perché ne condivide molti fattori: abbandono del noto, accettazione del rischio, incertezza. Ma anche piacere, opportunità e promesse di felicità.

Come laureato di questa ottima università dovrei fornirvi delle indicazioni sul viaggio che andrete a compiere nel mondo del lavoro. Dovrei darvi alcuni cosiddetti buoni consigli. Ma ricordo un’antica massima che recita: “ci si compiace di dare buoni consigli, per consolarsi di non poter più dare cattivi esempi”.

Quindi mi limiterò a proporvi alcune riflessioni su argomenti e concetti a mio avviso importanti, soprattutto in questo momento storico: in una fase di recessione globale che il mondo non conosceva dalla fine della seconda guerra mondiale.

Prima però consentitemi di dirvi brevemente qualcosa di me, per presentarmi. Dopo la laurea qui a Boston e il Master in Business Administration a Harvard, ho seguito un percorso professionale autonomo iniziando in Goldman Sachs International a Londra. In seguito ho fondato la prima società di private equity in Italia, 21 Investimenti.

Quando la mia famiglia mi ha chiesto di prendermi carico dell’azienda che porta il nostro nome, ho accettato con grande passione ed entusiasmo. Oggi sono vicepresidente esecutivo di Benetton Group e siedo nel Consiglio di Amministrazione di Edizione, la holding che sovrintende a tutte le nostre attività diversificate.

La mia prima riflessione, a costo di sembrarvi eccentrico, parte dalla parola italianadesiderio, che conserva la stessa radice anche in altre lingue: desire in inglese, désir in francese. E’ una parola di origine latina: deriva da de-siderare che significa notare la mancanza di sidera, cioè delle costellazioni necessarie per trarre gli auspici per il futuro.

Si desidera ciò che non si ha, e gli antichi sentivano la mancanza delle stelle nelle notti coperte perché gli àuguri non potevano interrogarle per leggere il futuro. Avevano desideri “alti”, guardavano al domani.

I nostri desideri attuali, al contrario, sono troppo legati al presente, all’immediato. All’ora e subito. Oggi è in corso nel mondo un generale appiattimento del senso del tempo, che sta pervadendo progressivamente i comportamenti individuali e collettivi.

I desideri degli individui e delle società, e quindi i loro pensieri e le loro decisioni, tendono a rispondere al principio unico della soddisfazione immediata. Della felicità subitanea anche se effimera. Prevale, in buona sostanza, la “veduta corta” di chi ha smesso di meditare sul passato e di agire nel presente per affrontare e progettare un futuro possibile. L’appiattimento sul presente della società viene indagato come possibile chiave di lettura della crisi economica.

E’ una tesi che giudico interessante, poiché credo che una delle cause della crisi sia stata proprio la visione, da parte di manager e leader aziendali, di orizzonti temporali troppo limitati. Penso, ad esempio, a scelte e politiche finalizzate al breve periodo: alla logica della “trimestrale”, del misurare il successo o la difficoltà di un’azienda con il respiro corto e affannato dei risultati calcolati ogni tre mesi.

L’ossessione dei risultati immediati, a mio avviso, ha finito per sfociare in una distribuzione di valore - a pochi - più che in una vera creazione di valore. Del resto è stato proprio il presidente Barack Obama nel suo discorso di insediamento a ricordare come il successo dell’economia dipenda anche “dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di estendere le opportunità per tutti coloro che abbiano volontà”.

Se mi si consente un’altra piccola digressione personale, posso aggiungere che lo stesso Gruppo Benetton ha dovuto scegliere tra azioni a breve, spesso sollecitate dal mercato - come la liquidazione del suo asset immobiliare o l’erogazione di dividendi straordinari, o un maggiore ricorso al pur necessario indebitamento - e visione di lungo periodo.

Abbiamo scelto questo secondo, meditato indirizzo. Abbiamo investito e continuiamo a investire. E oggi affrontiamo la crisi internazionale con un solido patrimonio e con un capitale di esperienza e valori capace di esprimere una nostra visione del mondo, non appiattita su una semplice scelta di mercato o sulla momentanea quotazione di borsa.

Il manager di oggi, quindi, dovrebbe avere una visione di lungo periodo e, insieme, coscienza e conoscenza del passato proponendosi di “reinventare il passato per vedere la bellezza del futuro”.

Il secondo tema su cui vorrei proporre una riflessione è quello della responsabilità. Un tema importante, soprattutto in un momento in cui, negli Stati Uniti come in Europa, la crisi di fiducia nei confronti del business e del management si sta trasformando in “rabbia populista”, come l’ha definita qualche mese fa Newsweek.

Nelle piazze del mondo - qui, in Gran Bretagna, Francia, Belgio, Italia - risuonano slogan, e purtroppo non solo, contro manager, banchieri, imprenditori, ritenuti a torto o ragione i principali responsabili della crisi.

In Europa è in programmazione in queste settimane un film francese, Louise et Michel,in cui le operaie di una fabbrica decidono di mettere insieme le loro piccole liquidazioni per affittare un killer che uccida il proprietario che le ha licenziate da un giorno all’altro.

Per nostra fortuna, è solo un film! E’ una divertente e paradossale commedia nera, d’accordo. Ma credo che colga un certo spirito del tempo, affrontando con un’ironia che rasenta il sarcasmo i temi bollenti dell’agenda politico-economica di oggi.

Per rispondere efficacemente a questa crescente tensione sociale, penso che per il mondo economico-finanziario siano necessarie al contempo una nuova cornice di regole e una profonda assunzione di responsabilità.

Di fronte a una crisi così grave e comune l’assunzione di responsabilità, nei confronti dell’impresa ma anche della società, degli altri come di noi stessi, diventa imprescindibile. Per guardare con senso etico anche all’esterno del sistema aziendale: al contesto sociale, al territorio, ai valori ambientali. Per conciliare la creazione di valore con una maggiore uguaglianza sociale.

E’ opportuna una nuova alleanza tra capitale e lavoro, tra responsabilità e democrazia, per evitare che la crisi, prima finanziaria poi economica, diventi proprio deficit di uguaglianza e quindi problema sociale.

Il tema della responsabilità si intreccia strettamente con quello dell’etica, per arrivare a definire una moralità manageriale che vada oltre l’impegno e la responsabilità verso l’impresa e gli azionisti.

Dunque a mio avviso occorre una maggiore moralità civile, collettiva, senza la quale le società non possono progredire. E una moralità individuale, privata, che rinnovi e rigeneri costantemente quella pubblica.

Oggi, d’altronde, non possiamo permetterci il lusso di contrapposizioni tra stato e mercato. E’ più che mai necessaria una collaborazione. La combinazione di mercati aperti, opportunamente regolati, con uno stato che si occupa dei programmi di giustizia sociale e opportunità per tutti, potrebbe rappresentare la giusta direzione.

E’ anche necessario che manager, banchieri e imprenditori vedano nella crisi la possibilità di ripensare la propria organizzazione, puntando al recupero di efficienza con maggiore capacità e consapevolezza. Superando eccessi nelle retribuzioni e aspettative di rapidi ritorni.

In sintesi il management di oggi dovrebbe essere coraggioso e innovativo ma al tempo stesso cauto e analitico. Vivere il processo decisionale con grande responsabilità e rifuggire dall’improvvisazione, con la consapevolezza che il successo non sarà più immediato.

Un altro concetto su cui mi sembra importante proporvi una riflessione è quello difrontiera. Potrebbe apparire pleonastico affermare, in epoca di globalizzazione, la necessità di indagare nuovamente il concetto di frontiera. E proprio in un Paese che si è costruito sul mito della Frontiera: prima geografica, poi umana e sociale.

Ma oggi occorre ripensare il concetto di frontiera: non sbarramento verso una possibile terra di conquista. Semmai un passaggio verso un ulteriore progresso umano.

E se nel sapere scientifico e nell’innovazione la frontiera è oggi più che mai la forma dell’avvenire, dei nuovi orizzonti, in economia può e deve essere apertura al mondo e ai nuovi mercati: un’apertura estranea a ogni pregiudizio politico, ideologico o religioso.

E’ il caso del Gruppo Benetton, presente in 120 Paesi diversi, che ha costruito la sua storia di sviluppo internazionale proprio sullo spirito del viaggio, sul superamento dei confini. E quindi sul rispetto, sul dialogo e sulla collaborazione con società, culture e popoli differenti. E’, a ben vedere, l’opposto di un concetto di globalizzazione basato su un’idea di compiutezza del mondo e di fine del tempo che denota assenza di immaginazione e attaccamento al presente.

Per uscire dalla crisi attuale - lo ha ricordato anche il presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso - è necessario “riplasmare la globalizzazione”, attraverso una serie di regole su scala mondiale, nate da una fattiva collaborazione internazionale, che consentano di gestirla e fare del potenziale dei mercati una risorsa per i cittadini. Oltre che per affrontare insieme sfide planetarie quali i cambiamenti climatici, la sicurezza energetica e la lotta alla povertà.

Credo che il manager del futuro debba essere davvero senza confini, prima di tutto mentali, e che non debba porre limiti alla propria creatività. Parola quest’ultima che, al di là dei luoghi comuni e delle esagerazioni, può veramente rappresentare una risorsa.

Il futuro apparterrà ai manager creativi e attivi nei network dove circolano le idee più nuove, i saperi più avanzati, gli accordi più proficui. Dove per manager creativo si intenda chi riesce a essere libero e inventivo in una cornice di regole, di ordine sostanziale, coltivando il senso dell’impresa.

Un manager che possegga senso di appartenenza e identificazione, al di là degli unici obiettivi di avanzamento di stipendio e carriera personale. Anche perché con una visione esclusivamente “tecnica”, freddamente specialistica, spesso si può coprire un’emergenza. Ma non costruirsi una carriera.

E’ un argomento, quello della creatività, che rimanda all’importanza dell’estetica come valore che definisce il senso dell’arte e, in modo più ampio, di tutto ciò che è bello. Ma che è anche strettamente collegato, nell’origine greca, alla sensazione, alla percezione dei sensi. A un modo di “sentire” il mondo.

Oggi il sapere estetico - come l’idea del gusto - è diventato indispensabile per operare con successo nel mercato dei consumi di massa. E per saper gestire il peso rilevante delle componenti di stile, design, comunicazione ed “emozione” dei prodotti e dei servizi.

Un sapere essenziale per evitare che il manager assuma visioni eccessivamente focalizzate su questioni tecniche, spesso “miopi”, perché incapace di vedere a livello globale le ripercussioni delle sue azioni.

Come convinto ottimista, io penso invece che occorra dare spazio alle idee, alla creatività, al talento, ai giovani. In Benetton continuiamo a investire su questi valori.

Sono infatti convinto che dalla crisi emerga la possibilità di guardare e vivere questo momento non facile in modo innovativo e diverso. Cambiando punto di vista, mettendosi dalla parte delle opportunità con fiducia e ottimismo. Facendo dei propri pensieri, delle parole e delle esperienze un ponte che unisce agli altri, che rende la diversità più forte e costruttiva dell’omogeneità.

Ciò che conterà di più, in definitiva, sarà l’ampiezza variegata delle qualità, dei valori e delle passioni che saprete mettere in gioco nelle vostre esperienze. Con tutto l’ottimismo che la vostra eccellente formazione autorizza. Con il desiderio di futuro che giorno dopo giorno saprete far crescere dentro di voi.

Ancora complimenti. In bocca al lupo a tutti e grazie dell’attenzione.

Boston, 15 maggio 2009

 

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